È trascorso un anno dal crollo del Rana Plaza in Bangladesh – edificio di otto piani che ospitava aziende fornitrici di molte multinazionali del tessile – che ha seppellito 1.138 persone e ne ha lasciate ferite oltre duemila. “La globalizzazione senza diritti uccide” scriveva la Femca Cisl di Brescia a pochi giorni dalla tragedia e rilancia oggi con un volantino sottolineando la necessità di una campagna mondiale contro lo sfruttamento dei lavoratori e per la responsabilizzazione delle aziende occidentali che approfittano dei drammatici bisogni dei paesi più poveri.
Il sito redattoresociale.it propone una riflessione sulla tragica vicenda di un anno fa in Bangladesh attraverso il resoconto della sezione italiana della campagna “Abiti puliti”, che fin dall’inizio ha seguito la vicenda e ha denunciato le condizioni di lavoro degli operai.
“Nonostante sia stato siglato un accordo innovativo tra marchi, governo, lavoratori, sindacati e Ong, supervisionato dall’Ilo, per un programma di risarcimento inclusivo e trasparente – scrivono i referenti della campagna in una nota -, il Donor Trust Fund volontario istituito per raccogliere le donazioni è ad oggi tristemente sotto-finanziato”. I marchi e i distributori hanno contribuito con soli 15 milioni di dollari, appena un terzo dei 40 necessari. Per Deborah Lucchetti, referente italiana della campagna, è una nuova violazione dei diritti dei lavoratori sopravvissuti e delle famiglie delle vittime: “I marchi europei e nord americani infliggono a migliaia di persone una sofferenza continua, ingiusta e intollerabile”.
Il risarcimento negato è ancora più ingiusto, secondo Abiti puliti, se si considera l’ammontare richiesto alle ditte, un’incidenza insignificante sul bilancio aziendale: “Se guardiamo ai profitti realizzati dalla Famiglia Benetton nel 2012 – affonda Lucchetti – constatiamo che la richiesta di 5 milioni di dollari per il Fondo equivale appena all’1,4 per cento degli utili del gruppo, percentuale davvero marginale per un’azienda che deve il suo successo economico anche al lavoro sottopagato e rischioso dei lavoratori bangladesi”. E incalza: “Non ci sono scuse per non pagare, le imprese coinvolte devono assumersi le proprie responsabilità, è una questione di diritti e di civiltà“.
Ma il problema non riguarda solo i marchi italiani. Liana Foxvog dell’International labor rights forum sottolinea: “Children’s Place, il cui Ceo ha guadagnato 17 milioni di dollari lo scorso anno, ha pagato una cifra pari a soli 200 dollari per famiglia. L’azienda considera davvero la vita delle persone così a buon mercato? Devono pagare di più”.
La richiesta è che i marchi che ancora si rifiutano di contribuire al fondo facciano dei versamenti significativi e in tempi rapidi. Non solo le italiane Benetton, Manifattura Corona e Yes Zee, ma anche Adler Modermarkte, Ascena Retail, Auchan, Carrefour, Cato Fashions, Grabalok, Gueldenpfennig, Iconix (Lee Cooper), J C Penney, Kids for Fashion, Matalan, NKD e PWT (Texman). Tutte aziende che avevano produzioni al Rana Plaza durante il crollo e poco prima. Il “Donor Trust Fund” è aperto anche a donazioni volontarie. “Per raggiungere l’obiettivo dei 40 milioni di dollari è anche necessario che il governo e gli industriali del Bangladesh aumentino i loro contributi – precisa Lucchetti -. E che i governi Usa e Ue si assicurino che le aziende dei loro paesi paghino”.
La lotta per il risarcimento e per la sicurezza dei lavoratori passa anche dagli eventi previsti per le celebrazioni del primo anniversario in tutto il mondo. A Dhaka, la capitale del Bangladesh, lavoratori e sindacalisti ricorderanno la tragedia: tra i vari eventi, il racconto delle vittime al Worker Solidarity Center e una catena umana sul luogo del crollo.